andres laszlo sr.

Dopo «Marcellino Pane e Vino», il soave racconto che ha riscosso il più ampio favore del pubblico, presento con piacere la traduzione di questo delizioso romanzo di Andrés Laszlo. Pepote, che è un’alterazione graziosa e familiare di a Pepe», corrispondente al nostro Peppino o Peppuccio, ha nel testo originale spagnolo il titolo «Mi tio Jacinto», cioè «Mio zio Giacinto». Giacinto e Pepote, rispettivamente zio e nipote, sono i protagonisti dell’originale racconto il quale, anche se ha per autore un ungherese, è stato scritto in un castigliano perfetto e rispecchia in piena fedeltà sentimenti, ambiente, folclore spagnoli, onde a buon diritto può essere compreso tra le opere più significative della letteratura narrativa della Spagna d'oggi. Acquista ora.

È la tragedia di un torero mancato, che non è stato mai una celebrità e mai un fallito, ma che è semplice- mente scomparso, piombando, senza che nessuno se ne accorga, dal firmamento dei trionfi sognati, nel pantano della miseria. Una tragedia che non ha nulla di clamoroso ed è più che frequente tra i toreri.

Il tema era già stato accennato dal Laszlo in «Solo el Paisaje Cambia», che è una serie di racconti, ventuno in tutto, ciascuno dei quali ha, per titolo, una città. Ventuno città, delle più svariate parti del mondo, disposte in ordine alfabetico: da Avita, Budapest, Cannes,... a Londra, Madrid, Napoli... Upsala, Venezia e Z. (una città che preferisce indicare solo con Viniziale). Nel racconto intitolato «Madrid», ci incontriamo appunto con un ex-torero, un Giacinto che aspirò alla celebrità ed ora abita in una squallida baracca alla periferia della capitale spagnola, disoccupato e malaticcio, strappando come può la giornata e soffocando nel vino la sua immensa tristezza.

In «Mi tio Jacinto», però, il tema è sviluppato ed ampliato ed entra in scena l’altro personaggio: il nipotino Pepote. La squallida esistenza del torero si illumina improvvisamente del sorriso e degli occhi di questo fanciullo.

Lottano entrambi per liberarsi dalle maglie della miseria, ma è una lotta che non ha la sua ragione d'essere nel fallimento e nella disperazione, bensì nell'amore reciproco di zio e nipote. Pepote riunisce, per Giacinto, gli ideali più puri e più fascinosi e ne è avvinto immensamente più di quanto lo avvincessero, in altri tempi, le glorie e i trionfi delle arene. E l'insuccesso del torero, si tramuta in una grande vittoria dell'uomo

Andrés Laszlo nacque il 26 gennaio 1910 a Szinna, città allora appartenente all’impero austro-ungarico. Successivamente passata ad altri, oggi Szinna è ancora contesa e non si sa a quale stato attualmente appartenga.

Le travagliate peregrinazioni di questa città sembra abbiano influito decisivamente sulla sensibilità, sul temperamento , stilla cultura dell’uomo e dello scrittore. Nomade, irrequieto, assetato di ideali e di infinito, Andrés Laszlo vagò per il mondo dello spirito e per gran parte del mondo geografico. Dopo Ungheria, la Romania e la Slovacchia, egli è vissuto fino al presente in ben diciotto Paesi.

La sua fantasia spazia dapprima nei campi fertili della storia dell'arte, e gli inizi sono estremamente difficili per lo scrittore errante che è costretto a lavorar sodo per sbarcare il lunario. È in queste condizioni che il Laszlo esordisce con i primi studi sui maestri della pittura spagnola: Goya, Zurbaran, Velasquez; studi salutati con misurato ottimismo dalla critica.

L'evoluzione psichica dello studioso e del critico di arte è lenta ma precisa; e Laszlo orienta ancora tutta la sua sensibilità verso la perfezione estetica, riuscendo a pubblicare una vasta opera di sintesi sul grande avventuriero dell'arte pittorica spagnola, Francisco Goya.

Poi sente che la pittura non lo soddisfa più interamente, e riesce a liberarsi dal suo fascino magico.

Fa tesoro delle esperienze acquisite nel corso della sua vita movimentata e le trasfonde in romanzi e in racconti densi di azione, di passione, di colori vivaci, di osservazioni realiste. «Château des phoques» (Il Castello delle foche) che è una evocazione del suo paese natale e ci rivela un Laszlo umorista e di fervida immaginazione — apre la serie di queste opere che si susseguono quasi senza interruzione e con crescente successo. «Rhapsodie d’écrevisses» (Rapsodia di gamberi): descrizione pittoresca della vita parigina, di quella Parigi turistica e monumentale, soprattutto dove pullulano i «cabarets» notturni, nei quali artisti più o meno autentici muoiono eroicamente di fame. «Dona Juana - Don Juan - Juan y Juanito», nel quale sono contenute tutte le versioni immaginabili della vecchia favola del «conquistatore» Don Giovanni. «La où les vents s’endorment» (Dove dormono i venti), che ha per scenario Tangeri, col suo turbine di intrighi e di traffici, ed è forse il romanzo di Laszlo che ha suscitato più ampie discussioni di critica.

La più recente produzione letteraria di Laszlo è improntata a una più intima e profonda intuizione della natura umana. 1 suoi personaggi, siano essi ambientati in una ristretta cornice o si muovano in scenari di vasto panorama cosmopolita, si presentano ai nostri occhi attraverso la narrazione serrata ed avvincente, a volte ricca di sconcertante realismo, come fotografie nostre o di amici nostri, immagini insomma di gente che sembra appartenerci. Cosi in «Solo el Paisaje Cambia» e, soprattutto, in «Mi Tio Jacinto».

Qui lo stile di Andrés Laszlo si fa estremamente conciso, scevro di retorica e di lirismi. Situazioni, scene, vili personaggi balzano vivificati dalla profonda umanità dello scrittore e diventano lezioni di vita.

Il segreto del successo di Laszlo è tutto in questa sua umanità e in quella delle sue creature. E noi ci sentiamo avvinti dalla spontaneità dei movimenti, dalla impressionante vivezza di volti e di caratteri, dalla prestigiosa e insieme semplicissima narrazione dei fatti che ora ci rallegrano y ora ci commuovono, ma sempre inculcano in noi nobili sentimenti.

Roma, 25 marzo 1956.

Erminio Polidori 

CAPITOLO 1

Il rombo di un quadrimotore in cerca della pista di atterraggio nel vicino aeroporto di Barajas svegliò Pepote. Il ragazzo si levò a sedere, ancora mezzo addormentato, scostò una ciocca di capelli arruffati che gli cadeva sulla fronte, si stropicciò gli occhi con i pugnetti chiusi e si sedette sulla stretta panca che gli faceva da letto.

Il chiarore che filtrava attraverso le fessure della baracca lo convinse che era ormai giorno. Portò meccanicamente la mano verso la scansia dove di solito stava la vecchia sveglia: l’orologio però era fermo> e l’unica lancetta del quadrante indicava pensierosa un punto del passato.

Il bambino volse lo sguardo là dove si spegneva a poco a poco il ruglio del motore, scosse la sveglia e portò la lancetta sulle ore nove. Poi si infilò i pantaloni e un paio di sandali rotti, e ripete le operazioni che era solito fare tutte le mattine.

Staccò dal chiodo la panciuta brocca del latte, l’odorò scoperchiandola; ma si penti subito della sua curiosità e, con una smorfia di ripugnanza, la richiuse.

Si accingeva ad uscire quando si ricordò che aveva bisogno di denaro. Frugò rapidamente, ma invano, nelle tasche della giacca e in quelle dei pantaloni che giacevano su di una cassa in fondo alla stanza. Guardò indeciso intorno a sé nella penombra, poi fece un ultimo tentativo; infilò la mano sotto lo straccio arrotolato che gli serviva da cuscino, ma si convinse che non c'era speranza di racimolare un soldo.

Prese la brocca ed apri la porta. Cominciava a piovere. Il suo volto s’illuminò di un sorriso, perché la pioggia, in quella stagione, cadeva cosi di rado da rappresentare un fenomeno eccezionale. Si diresse verso il minuscolo ruscello che, scendendo dall’altura che dominava il paesaggio, formava l’unica invisibile barriera tra quel terreno e le falde della collina, nella quale si ergeva ancora «il castello» che in altri tempi era servito da magazzino a qualche appaltatore.

Alla vista del rigagnolo che scendeva rumorosamente dalla sorgente gli brillarono gli occhi dalla contentezza. Si avviò risoluto verso la chiusa da dove la corrente si riversava sul canaletto che fiancheggiava il sentiero. Lavò la brocca e si accingeva a riassettarsi, quando lo colpi un’idea che gli parve assai bella. Raccolse sassi e rottami e cominciò a restringere lo sbocco del ruscelletto, che peraltro non aveva più di quattro palmi di larghezza. I suoi sforzi furono coronati dal successo, perché il torrentello si gonfiò ed acquistò forza.

Allora il bambino tornò correndo nella baracca e ne usci poco dopo portando un vecchio coltello arrugginito ed alcuni pezzi di legno divelti dalle pareti. Quel materiale si converti presto in una ruota di mulino, che si mise a girare non appena le ingegnose mani infantili ebbero fissato Tasse fra le pietre che formavano la presa appena costruita.

Il ragazzetto non poté trattenersi a lungo nella contemplazione del suo capolavoro, perché la pioggia cadeva sempre più fitta. Raccolse la brocca e andò di corsa verso l’abitato.

Era una fila di case ad un centinaio di metri di distanza, tra le quali c'erano un forno ed una latteria.

*

II panettiere stava nel retrobottega immerso nella lettura del giornale del mattino, mentre sua moglie contemplava i rigagnoli d’acqua che si formavano e circolavano numerosi sulla lastra trasparente della vetrina. Appena vide il bambino la fornaia gridò, incollerita, a suo marito:

— È il colmo! non ha un pizzico di cuore quel tipaccio. Ha avuto il coraggio di mandare in giro quella creatura con questo po’ po’ di pioggia.

— Ma di chi stai parlando?

— Di chi vuoi che parli, se non di quel lurido ubriacone! Guarda come corre quel disgraziato!

Il fornaio cercò con i piedi le pantofole, ma qualche notizia interessante dovette trattenerlo, giacché non si mosse dalla sedia.

Pepote correva a tutto spiano, perché la pioggia si era convertita in diluvio e la giacchetta con la quale si ricopriva il capo non riusciva affatto a ripararlo.

La panettiera schiacciò con la punta dello scialle un moscone grosso quasi come lei, e si mise dietro il banco del negozio: allora entrò, grondante, il bambino, che ansimava per la corsa.

— Buongiorno, signora!

Aspirò con il naso le gocce che gli scorrevano fin sulle labbra e fece una smorfia assai preoccupato rendendosi conto, anche senza vedere, che l’acqua che gli scendeva dagli abiti inzuppati stava formando una pozzanghera intorno ai suoi piedi. Allora chiese in fretta:

— Due panini, per piacere.

— Nient'altro? — osservò la donna, restando immobile con le braccia conserte.

— Nient'altro, — ripeté il bambino.

Poi, dopo una breve pausa meditativa, rettificò:

— Va bene, ne voglio uno solo.

Soltanto allora il braccio della panettiera si mosse, non verso lo scaffale del pane, ma verso il bambino, e con la palma della mano stesa in atto di richiesta.

Il marito si accorse della mossa e si precipitò nel retrobottega.

— Non ho i soldi appresso. Glieli porterò domani, — disse un po’ turbato Pepote.

— Ah! domani, eh? — ruggì la fornaia con gli occhi scintillanti. — Di' a tuo zio, a quel vagabondo, a quella canaglia, che tutte le cose hanno un limite. Se non fosse perché non mi piace ficcare il naso in quello che non mi riguarda, lo avrei denunciato da un pezzo.

Il ragazzo abbassò la testa. Ed allora vide, con spavento, l’enorme pozza d’acqua che si era formata ai suoi piedi. «Mamma mia! che succede, ora, se se ne accorge?», disse fra sé e sé, mentre indietreggiava lentamente verso la porta.

— Da tempo ne avrei dovuto parlare a mio cognato, che è della Polizia!... — continuava la fornaia.

— Vede, ...devo fare altre spese. Arrivederci, signora! — tagliò corto il ragazzino dalla porta.

E usci correndo.

Rasentando le pareti delle case arrivò all’altro negozio.

Il lattaio, vecchio e baffuto, stava facendo rotolare un bidone di latte, e non rispose al saluto dell’improvviso sopraggiunto cliente. Fini con tutta flemma il suo lavoro e si pulì le mani nello zinale, prima di mettersi dietro il banco.

— Che vuoi? — chiese allora.

— Mezzo litro di latte, — rispose il bambino, mettendogli sotto il naso la brocca stappata.

Il vecchio parve esitare un istante, ma poi si decise a prendere il misurino per servire la quantità richiesta.

— Una «peseta» e sessanta centesimi, — disse a voce bassa, mentre aggiustava il tappo nella brocca.

Il ragazzetto doveva aspettarsele queste parole. Infatti rispose subito:

— Glieli porterò domani. Adesso non ce li ho.

— Devi sapere che io accetto anche tagliandi di credito e qualche volta cambiali, — disse il lattaio, senza far scorgere lo scherzo, anzi con accentuata serietà.

Pepote, che non aveva capito una parola, restò a guardare indeciso il centro di quei baffi, sotto i quali intuì il sorgere della imbarazzante domanda che non tardò ad essergli rivolta.

— Per chi è questo latte?

— Per me.

— Allora le cose cambiano. Bevilo pure, ma qui.

— Vorrei berlo a casa.

— Che differenza c'è?

— Ma io...

— Vuoi portare la colazione a quello scapestrato di tuo zio, eh? — gridò il lattaio alzando la voce. — Caschi bene! Neanche per sogno! Che faccia da schiaffi quel tipo! Io pure sono di quelli che, la mattina, si sciacquano la bocca con un buon bicchiere di vino rosso, ma io me lo so guadagnare. Di buon’ora sono già qui a pulire la bottega, mentre tuo zio, fino dalle prime ore, se ne va barcollando qua e là sborniato fradicio.

— Deve capire... Se mio zio non beve, si sente male la notte.

— Questa è buona! Vada al diavolo! Tanto, presto o tardi andrà a finire cosi. A me il latte non piace. Non vivo con il latte e, sia detto fra noi, neppure con l’acqua.

Poi soggiunse, parlando quasi nell’interno del bidone rimosso che, nel frattempo, aveva scoperchiato per versarci un bidone più piccolo di latte:

— Se vuoi fare colazione, puoi bere tutto il bidone. E poi, ecco la cassa: prendi pure i soldi per il pane.

— No. Il latte desidero berlo a casa, — replicò il bambino, insistendo senza perdere la speranza. — Ho lasciato là il denaro.

— Bugiardo!

— Non dico bugie.

— Allora va’ a prendere i soldi. Tanto il latte non diventerà acido nel frattempo.

— Va bene!... Tornerò subito, — sospirò Pepote, dando un’occhiata piena di tristezza alla brocca che era restata sul banco.

— Quando vuoi, giovanotto!

*

Intanto aveva smesso di piovere.

Appena sulla strada Pepote cominciò a vagare senza meta, a casaccio. Era imbronciato, perché la giornata aveva avuto un disastroso inizio.

Osservò distratto una gallina che stava beccando un chiodo invece d’uno dei tanti vermi usciti a diguazzare nelle pozzanghere, e rispose appena appena al saluto del postino che, uscito da un portone, stava scrollando l’acqua che gli inzuppava la giubba.

Giunto nello spiazzo che divideva due casupole udì il vociare d'una combriccola di ragazzi.

Erano più grandicelli di lui, e poiché non aveva voglia di giocare, passò al largo, come se non li avesse visti. Giunse all’angolo della seconda delle due baracche, quando senti rivolgersi queste parole:

— Ehi tu! vuoi guadagnare quattrini?

— Magari! ’— rispose, rivoltandosi prontamente, pieno di speranza. — E come?

— Con le corna! — disse uno di essi, orecchiuto e pieno di lentiggini, facendosi avanti. — Stiamo preparando una corrida e nessuno vuol fare da toro.

— Quanto mi date?

— Venti centesimi.

— Per ogni carica?

— Per stoccata.

— Ce li avete i «picadores»?

— Solo i «banderilleros».

— Due paia?

— Tre.

— D'accordo!

Gli misero sulle spalle una testa di toro fatta di giunchi e munita di corna. Si fece pagare anticipato, prese un atteggiamento aggressivo, lanciò il corpo in avanti ed ebbe cosi inizio la corrida.

Quando fra le nubi squarciate spuntò il sole, Pepote cominciò a sentire caldo. Gli doleva anche una spalla, avendo dovuto combattere a testa bassa. Decise allora di cambiare il gioco, tanto più che già possedeva due «pesetas» in monetine, ossia qualcosa in più di quanto costasse il latte.

Si tolse la testa di toro, la cedette al più piccolo dei ragazzi e fece la mossa di prendere lo stocco di legno avvolto in un drappo rosso.

— Adesso sarò io il «torero», — disse.

— Benissimo, — rispose l’altro. — E quanto paghi?

— Venti centesimi, come avete dato a me.

— No, no...

— Trenta.

— Macché!

— Quaranta.

— Nossignore.

— Ma quanto, allora?

— Una «peseta».

— Non si fa cosi, — protestò. — Voi mi avete dato soltanto venti centesimi.

— Perché sei piccolo.

— E con questo?

— Sai quanto vale un vitello e quanto vale un toro?

— No.

— Me l’immaginavo. Informati e torna domani. Ne riparleremo.

Certamente gli sarebbe piaciuto continuare la discussione, ma si ricordò della brocca e del latte che lo stavano aspettando, e allora se ne andò. Non sapeva se quel ragazzo avesse o no ragione nel fatto del prezzo di tori e di vitelli, ma non gli andava giù il non aver potuto uccidere neanche un toro.

Sospirò, poi disse risoluto fra sé e sé: «Eh, quando sarò grande, sarà un’altra cosa!».

*

Arrivò cosi davanti ad un altro spiazzo, in fondo al quale due somarelli stavano pacificamente a pascolare. Si fermò incuriosito e osservò i due animali con vivo interesse, anche se di certo non era la prima volta che li vedeva. Poi, eccitato da un’idea geniale, si avvicinò ad essi.

Si tolse la giacchetta, se la aggiustò nel braccio destro, come fosse una «muleta», e la agitò davanti ad uno degli asinelli, ma a prudente distanza:

— Jé, jé, toro!... — gridò all’animale, incitandolo.

L’asinello, manco dirlo, non alzò né scrollò il capo.

Allora Pepote ripeté il grido:

— Jé, jé, torello! Forza! forza! forzaaa!

L’asino anche questa volta non reagì alla provocazione. Mosse la coda e non fece di più.

Allora il ragazzo invitò alla battaglia l’altra bestia: prima da lontano, poi più da vicino.

Sebbene non ottenesse diverso risultato, seguitò nella sfida avvicinandosi ancora di più all’asinello. Emozionato, agitò più volte la giacca e sempre con più forza.

In quel momento comparve nel cielo un altro aeroplano che si preparava all’atterraggio. Pepote riconobbe subito il «Douglas» dell’«Air France & e seppe cosi che erano passate le dieci, poiché ogni giorno, alla stessa ora, l’aeroplano di linea giungeva da lontano all’appuntamento sul campo di Barajas.

Soltanto allora Pepote interruppe il vano incitamento rivolto agli asini. S’infilò la giacca e presa la corsa si diresse alla latteria.

Entrò, sempre correndo, nel negozio, che in quel momento era deserto. Gettò rumorosamente le monete sul banco, afferrò la brocca, usci d’un balzo, e filò verso casa.

*

Arrivato alla baracca, Pepote si trovò di fronte uno spettacolo che l’arrestò di colpo e l'agghiacciò. Gli occhi e il cuore batterono di stupore e di sbigottimento insieme. Lo spiazzo antistante, in leggero declivio verso la porta dell'abituro, era allagato. Non un leggero strato, ma un piede d’acqua.

Il ragazzo che non aveva la coscienza tranquilla, raggiunse in quattro salti la presa da lui costruita, dalla quale la corrente s’era da tempo portata via il mulino. Demolì in un batter d'occhio il suo ingegnoso lavoro e scagliò via sassi e rottami per lasciare libero corso al ruscello e sbocco al lago improvvisato. Poi si tolse i sandali, diguazzando a piedi nudi, e tentò di rientrare a casa.

La porta non voleva aprirsi gonfiata come si era, ma poi dovette cedere a forza di spinte. Si sgangherò e, nel rovesciarsi, per poco non schiacciò Pepote. Ricevendo il colpo barcollò, la brocca gli sfuggi di mano e il latte si mescolò con l'acqua.

Ma finalmente poté entrare.

Raggiunto l'interno, Pepote fu accolto da un russare uniforme e tranquillo. Anche nella stanza s'era formato un laghetto: un palmo d'acqua, dove galleggiavano i più svariati oggetti a lui sconosciuti o che egli considerava smarriti da tempo.

La vecchia sveglia, ch'egli aveva lasciata in terra, era sommersa. La tolse dal bagno, la sgocciolò, spostò in avanti la lancetta che vedova era rimasta a segnare il tempo, la scosse e riuscì perfino a farle fare un lungo trillo.

Allora, sempre diguazzando, s’avvicinò al mucchio di cenci sotto cui si trovava, orecchi tappati, lo zio addormentato.

Lo scosse... Lo riscosse...

In un primo tempo ottenne un solo risultato: cessò il russare dello zio e sparirono sotto le coperte i pochi capelli con cui quel corpo in riposo manteneva un contatto organico col mondo esterno. Poi si udì una specie di grugnito di disgusto che si tramutò ancora in russare soffocato.

Ci volle del bello e del buono perché Pepote riuscisse a svegliarlo.

Finalmente, però, Giacinto apri gli occhi. Sbadigliò, si stirò, guardò in giro senza nulla vedere e, puntati i gomiti, si mise a sedere sul letto. Tirò fuori le gambe dai cenci che gli servivano da coperta, ma nel poggiare i piedi in terra fece un salto, come se avesse toccato un ferro rovente. L’inaspettato pediluvio gli strappò uno strillo. Dette una rapida occhiata al pavimento allagato e a quella vista si senti gelare il sangue nelle vene.

— E questa da dove è venuta fuori?

— Pioveva tanto! sai?

— Quando?

— Poco tempo fa.

— Non mi sono accorto di nulla.

— Dormivi.

— E che altro dovrei fare a quest’ora? O che forse non si può dormire in questa casa?

— Ma sai... veramente...

— Scommetto che hai costruita un’altra presa d’acqua.

— Qualche cosa dovevo fare.

— Qualche cosa dovevi fare... — bofonchiò lo zio Giacinto. — E non t’è passato per la testa che potevo affogare?

— Macché! non pensavo ci fosse tant’acqua.

La risposta sbarazzina, avrebbe meritato un rimprovero, ma lo zio Giacinto vide proprio allora una delle sue scarpe, che, galleggiando, andava alla deriva e si avvicinava lentamente alla porta. Furibondo esplose:

— Ti rendi conto di quel che succede quando vuoi seguire soltanto i tuoi capricci? Ti ho detto mille volte che l’acqua è cosa pericolosa. Pare impossibile che un ragazzo della tua età sia ancora cosi poco ragionevole. Sei più cocciuto di un mulo! Non sarai mai uomo, tu. Meriteresti d’essere messo alla porta; cosi almeno non dovrei più preoccuparmi di te.

Mentre lo zio parlava, Pepote aveva scorto Tal tra scarpa navigante. Finita la predica, le rincorse entrambe, rovesciò l’acqua che contenevano e, senza aprire bocca, le depose sulla coperta, vicino allo zio Giacinto, il quale, stringendosi nelle spalle con senso di amara rassegnazione, cominciò a vestirsi tenendosi, ora, in piedi sul letto.

Nel frattempo Pepote prese tutte le misure necessarie per assicurare allo zio il transito della stanza a piedi asciutti.

Come poté ribaltò il tavolino e lo avvicinò al letto. Giacinto comprese la portata di quella intelligente manovra, ma non ne fu entusiasta. Anzi non celò al nipote il suo disappunto.

Pepote allora gli tese il vecchio ombrello sbiadito, che gli fece da bastone durante l’avventurosa traversata: la camera, la porta d’uscita, una specie di stretto, e lo spiazzo. Quando infine raggiunsero la sponda, Giacinto saltò dall’imbarcazione con l’agilità di un ragazzo e in tutta fretta si allontanò dalla zona pericolosa.

Pepote corse a prendere i sandali che erano restati vicino alla presa d’acqua, mentre lo zio si torceva il bordo della giacca inzuppatasi durante quella singolare navigazione.

*

Come accadeva di solito dopo avere smaltito una sbornia, la mente di Giacinto era assente dal precisare propositi. Guardava senza osservare. Ma non poté fare a meno di scorgere una lettera appesa allo spino di un cespuglio che ondeggiava proprio innanzi al suo naso.

Si avvicinò allora ancor più, e vide con meraviglia che il messaggio era diretto proprio a lui. Apri la busta e, impicciolendo la pupilla, decifrò il contenuto della lettera. Si trattava di una comunicazione datata di tre giorni prima, con la quale l’impresario di una corrida comica confermava quanto era stato concordato a voce; e cioè che Giacinto avrebbe preso parte alla rappresentazione di quello stesso giorno in qualità di «matador» e con l’onorario di «pesetas» millecinquecento. Gli raccomandava la massima puntualità, alle ore ventuno precise, e gli porgeva i più distinti ossequi e saluti.

Rimise la lettera nella busta. Restò un momento a pensare e poi, con un gesto rapido, la sgualcì e la scagliò lontano.

Pepote, che proprio allora sopraggiungeva, osservò con un certo piacere che allo zio era capitata qualcosa che lo aveva distratto da quanto era accaduto un momento prima.

— Ancora il mio tutore, eh! — osservò.

— No. Era una faccenda che non ti riguarda. Era cosa per me.

— C’è il francobollo sulla busta?

— Che ne so, io!

— E che vogliono?

— Prendermi in giro, — rispose Giacinto corrucciato.

Non disse altro e s’incamminò.

Pepote raccolse la lettera senza farsi notare, la stirò con le mani, se la mise in tasca, e raggiunse in due salti lo zio.

*

Si avviarono insieme per raggiungere la vicina fermata del tram. Fecero però un giro largo, onde evitare i negozi con i quali avevano conti in sospeso.

Il bambino camminava a testa alta, osservando il cielo più che le pozzanghere. Faceva il «distratto» per non salutare i conoscenti, i quali non avrebbero neppure risposto vedendolo in compagnia dello zio.

Giunsero alla fermata senza avere pronunciato una parola. Dovettero aspettare un bel po’ perché arrivasse un tram carico in tal modo da permettere loro il viaggio fino alle «ventas» stando sulla piattaforma e senza pagare il biglietto.

Giunti al centro della città s’affrettarono a scendere.

L'immenso piazzale che circonda la «plaza de toros» era deserto. Un solo sguardo fu loro sufficiente per rendersi conto d’aver trovato un materiale abbondantissimo. Il giorno avanti c’era stata una importante corrida, ed il pubblico aveva lasciato una generosa provvista di cicche.

Si misero subito all’opera.

Pepote le raccoglieva con le mani, ma Giacinto, dignitosamente e con precisione matematica, adoperava l’acuminata punta dell’ombrello.

Le tasche di entrambi i raccoglitori si riempirono in breve tempo, ed erano già colme quando avevano percorso appena la quarta parte del giro del piazzale.

Durante la raccolta Pepote aveva perduto di vista lo zio, ma quando, poco dopo, lo ritrovò, vide con sorpresa che stava contemplando immobile e con gli occhi sbarrati uno dei cartelloni pubblicitari attaccati ai lati dell’ingresso principale dell’arena.

Il manifesto, illustrato con disegni a colori vivacissimi, annunziava il programma della «charlotada» che doveva aver luogo quella stessa notte. In esso figurava con lettere cubitali il nome di Giacinto come principale «matador».

— È una burla! — furono le rauche dolorose parole che uscirono dalla sua gola.

Rilesse almeno una decina di volte il suo nome, mentre avvolgeva in un foglio di giornale una notevole quantità di cicche. Poi stropicciò parecchi cerini sullo smeriglio della scatoletta, senza accorgersi che gli si erano bagnati nella tasca della giacca.

Pepote, al quale ancora rimordeva la coscienza per quel che era accaduto a casa, indicò silenziosamente col dito la tasca dove lo zio teneva il fazzoletto, sicuro che là si sarebbero trovati ancora alcuni cerini asciutti.

Giacinto, senza dir nulla, frugò nella tasca, trovò un cerino e lo stropicciò sui mattoni della parete dell’anfiteatro. Accese la sigaretta, la guardò, l’aspirò e mandò un’ampia boccata di fumo.

Poi, perplesso, si grattò la nuca ed alzò gli occhi verso il limpido cielo azzurro, come per chiedere consiglio.

Pepote avrebbe ricominciato il suo lavoro, ma glielo impedì la voce dello zio:

— Andiamocene, e presto!